L’orto in Romagna è un’istituzione nel tempo

 

Orto, dal latino hortus, ha comune origine con le voci corte e giardino e con significato di recingere, onde il termine vale a significare chiuso, recinto, quindi pezzo di terra chiuso, recintato, nel quale si coltivano erbe mangerecce (ortaggi). L’orto è stato lo strumento attraverso il quale le donne, in modo particolare, hanno selezionato i vegetali e gli animali più adatti per l’alimentazione umana ed hanno sviluppato la cucina, con tutte le sue tecniche, dando poi avvio alla gastronomia.

Che la nostra sia una terra non solo di campanili, ma anche di orti lo si evince transitando per le vie in alcuni quartieri della città e nelle strade dei paesi del circondario imolese. Dalla Pedagna a Ponticelli, dal lungo fiume (vicinanze Ponte Vecchio) alla zona dell’ospedale nuovo – per non parlare della “via degli Orti” – si può notare come la tradizione legata alla coltivazione dell’orto non sia scomparsa e anche piccolissimi fazzoletti di terra, magari ristretti su un argine di un canale o di un fiume vengano coltivati con cura e assidua presenza. In molti Comuni della Romagna, e Imola è fra questi, vengono attuate per tradizione politiche atte a rendere disponibili aree appositamente dedicate a questo tipo di impiego. Ne consegue che possiamo ritrovare ancora oggi una ricca memoria gastronomica nella cucina legata ai prodotti degli orti avendo sempre avuto un’ importanza centrale nella vita delle famiglie in ogni epoca. Testimonianze culinarie legate ad alcuni prodotti in particolare che ancora oggi vengono proposte in famiglia, nei ristoranti o nelle osterie.

Nei nostri orti, oltre ai soliti prodotti reperibili probabilmente in tutti gli orti italiani, vale la pena citare la coltivazione dello scalogno, del sedano e del cardo gigante, del carciofo, della melanzana violetta e della zucca gialla; altri ortaggi che ritroviamo nelle ricette della tradizione sulle nostre tavole e nei ristoranti del territorio sono: cipolla, spinaci, asparagi, cavolfiore, patate, fagioli, “la barba di frate” (liscari), porri, radicchi di campo e la vitalbe (“viderba” in dialetto).

Vale la pena ricordare che molti di questi prodotti della terra hanno costituito nei secoli passati o recenti le uniche possibilità che la natura metteva a disposizione delle classi meno abbienti. Proprio la disponibilità a volte anche sostanziosa dei prodotti proveniente dagli orti e una generale situazione di povertà che si poteva riscontrare nel territorio fino agli anni successivi al secondo conflitto mondiale, ci consente oggi di rintracciare – e recuperare -, al di là dell’utilizzo quale contorno ad altre pietanze, una serie di piatti e di ricette frutto anche dell’ingegno di chi faceva “di necessità virtù”.

Così ritroviamo ancora oggi nelle “baracchine” sparse lungo le nostre strade, le piadine o i crescioni alle erbe con formaggio morbido, nei primi piatti “i curzul” (letteralmente in dialetto i lacci delle scarpe) al sugo di scalogno (piatto tipico quaresimale), i Malfattini o le zuppe al brodo di fagioli o con gli spinaci, i risotti con il radicchio o con la verza, tortelli alle erbe, gnocchi alle erbe, ed ancora i fritti con zucchine, carciofi, cipolla, cardo, sedano, ecc., le frittate di zucca, di barba o di vitalba, lo stufato di cipolla e alla campagnola, gli “antichi” radicchi con i bruciatini (la variante con l’aceto balsamico è stato introdotto recentemente per le mutate richieste del mercato), le zucchine ripiene e per finire le svariate e fantasiose frittate alle verdure dettate più dalla disponibilità del momento che da una particolare tendenza “all’estro” in cucina.

Negli ultimi tempi la richiesta di menù vegetariani nel mercato della ristorazione è aumentata notevolmente per i mutati interessi della società. Per vari motivi, che vanno da una valutazione di un maggior benessere a una presa di posizione si certi temi, stanno aumentando i ristoranti che propongono i prodotti degli orti lavorati con fantasia utilizzata ancor più nella loro descrizione cartacea.

Trovo molto positiva la cosa a conferma di quanto sostengo ogni volta in cui sono chiamato a presentare eventi o incontri: la “tradizione è innovazione e non statica conservazione del passato”, “dobbiamo essere custodi dinamici della memoria” secondo l’antica massima “aprirsi senza perdersi” ricordando sempre che la nostra tradizione gastronomica si fonda sul trinomio gusto, qualità e identità locale che diviene, nell’insieme, nazionale.

(Pierangelo Raffini)


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